Renato Guttuso nutriva delle perplessità circa il periodo di generale (ri)fioritura della società successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Nel 1965 definì quella del cosiddetto boom come “un’epoca dell’antirinascimento e dell’antiumanesimo, in cui lo spirito collettivo, insoddisfatto dei valori elaborati dalla civiltà, sembra sentire il bisogno non soltanto di rinnovarli e rivederli, ma di oltraggiarli”. Poi pose una domanda: “Rientra forse nella logica di questa crisi il fatto che un pittore così felicemente naturale, di così alto e umano equilibrio, tanto classicamente terreno e italiano, così comunicativo come è Raffaello, possa apparire incomprensibile a molti? Raffaello è un pittore sottile, che non dà spettacolo, non afferra la gola, non grida, non si esprime per paradossi, non vuole provocare sensazioni violente. Come potrebbe un tale artista riuscire a penetrare la pelle di rinoceronte di cui siamo coperti?”
È probabile che Guttuso si riferisse ai non pochi che vedevano nella perfezione apollinea di Raffaello i tratti di un insopportabile classicismo, e preferivano al suo estremo ordine, al suo equilibrio, alla sua serena bellezza, le ambiguità di Leonardo e le drammaticità di Michelangelo.
Non possiamo sapere se Guttuso sarebbe soddisfatto dello stato di cose al luglio 2020, o se la pelle di rinoceronte si sia trasformata nel frattempo in raffinata sensibilità, e non possiamo neppure sapere se sia possibile correlare la comprensione dell’opera di un grande artista con un’evoluzione in positivo dell’intera società, ma una cosa si può dire: allo scoccare dei cinquecento anni dalla morte, la figura di Raffaello Sanzio pare riconosciuta in tutta la sua grandezza.
La città di Urbino in cui crebbe Raffaello era un luogo illuminato: centro di propulsione degli studi matematici dell’epoca, vantava il rigore prospettico e l’armonia spaziale delle opere di Piero della Francesca, la solidità controllata di Luciano Laurana (architetto del palazzo Ducale), l’attenzione al colorismo nordico, e per molti non è un caso che una delle immagini simbolo rinascimentali – il dipinto di autore ignoto conosciuto come La città ideale – , proprio a Urbino fosse stata concepita, eseguita e (tuttora) conservata.
Lo Sposalizio della Vergine
1504 – Milano, Pinacoteca di Brera
Raffaello perde la madre a otto anni, e perde il padre, il pittore Giovanni Santi, a undici. Ancora adolescente, entra a far parte della bottega di Pietro Perugino. Viaggia in varie città umbre, diffondendo i primi acerbi capolavori, soprattutto in forma di affreschi.
Nel 1499, sedicenne, riceve a Città di Castello la prima commissione indipendente. È uno stendardo, e gli viene richiesto da una confraternita locale che vuole celebrare la fine di una pestilenza. Sempre a Città di Castello, poco prima di trasferirsi a Firenze, dipinge per la chiesa di San Francesco lo Sposalizio della Vergine.
Il soggetto era già stato dipinto da Perugino, ma la differenza tra l’opera del maestro e quella dell’allievo è spietata. Al posto dello statico edificio di Perugino, quasi bidimensionale e concepito solo come sfondo, Raffaello pone al centro dello spazio una struttura futuristica, una simbiosi tra il Tempietto di San Pietro in Montorio e il fulcro della citata Città Ideale di Urbino; sintetizza gli studi di Bramante sugli edifici a pianta centrale, la precisione matematica delle proporzioni appresa nel fertile ambiente artistico della sua città natale (la “divina proporzione degli ingegni” di cui parlava Carlo Bo), porta al massimo grado la serena malinconia delle figure di Perugino spogliandola però della loro rigida fissità – al limite della sonnolenza – e avvicinandola se mai alla grazia di Leonardo. Tutto questo – a chiunque può giovare ricordarlo, come quotidiano esercizio di umiltà – a 21 anni appena compiuti.
Il capolavoro è reclamato da un generale napoleonico e portato via nel 1799. Dopo alcune vicissitudini, giunge nel 1806 all’Accademia di Belle Arti milanese, le cui collezioni confluiscono poi in Brera, inaugurata nel 1809. Nel giugno 1958, il pittore milanese Nunzio Guglielmi, in arte “Nunzio Van Guglielmi”, infrange con un punteruolo e un martello il vetro che protegge il dipinto e incolla su di esso un volantino con la scritta “Viva la rivoluzione italiana, via il governo clericale!”. Prima che abbiano luogo le procedure che lo porteranno a essere ospite del manicomio di Milano, Van Guglielmi pugnala il quadro in due punti. La lastra di vetro va in frantumi ma riesce ad attutire la violenza dei colpi.
Madonna del Cardellino
1506 – Firenze, Galleria degli Uffizi
Raffaello arriva a Firenze nel 1504. È l’apice della Repubblica Fiorentina e Michelangelo lo ha inciso nella storia: il David è appena giunto in piazza della Signoria, scivolando senza danni sugli oliati binari di legno realizzati da Simone del Pollaiolo. A Palazzo c’è Machiavelli, Botticelli è ormai anziano ma la sua presenza si sente ancora.
Michelangelo è concentrato nel portare la sua furia civile e religiosa al massimo livello di concezione plastica.
Anche Leonardo è in città: è tornato dopo vent’anni vissuti nella Milano avanguardista della scienza e della tecnica, e si concentra nelle ricerche sui valori atmosferici.
Raffaello vede Michelangelo con silenziosa ammirazione, ma non si crea fra loro alcun rapporto.
Con Leonardo è invece più vicino a una dinamica maestro-allievo. Accompagnato nel suo studio, davanti alla Monnalisa il giovane Raffaello non riesce a trattenere le lacrime. Poco tempo dopo, sarà in grado di eguagliarlo, e per alcuni addirittura di superarlo, realizzando La Muta.
Michelangelo e Leonardo stanno lavorando, rigorosamente senza mai incontrarsi di persona, alla Battaglia di Cascina e alla Battaglia di Anghiari in palazzo Vecchio: è la “Scuola del Mondo”, e Raffaello la studia in profondità.
A lui, che è “forestiero” poiché arriva da fuori la cerchia (delle mura Arnolfiane di Firenze), non vengono commissionate opere pubbliche. Alcuni potenti mecenati privati come i Doni, gli Strozzi, i Canigiani, non si lasciano sfuggire l’occasione. È dai Nasi, ricchi mercanti, che arriva la commissione per la Madonna del Cardellino.
Raffaello vi riversa ciò che sta vedendo, il motivo stesso per cui è venuto a Firenze: il senso plastico e dinamico, il nucleo piramidale, lo sfumato che diventa velatura, il paesaggio etereo. Michelangelo e Leonardo sono dentro al quadro, fusi insieme in un nuovo linguaggio.
Ritratto di Giulio II
1511 – Londra, National Gallery
Palazzo Corsini è un sontuoso edificio che spicca sul lungarno che ne porta lo stesso cognome. Nel 1944 fu nel mirino di Hitler e Goering. Al suo interno si trova un’intera galleria d’arte privata. Tra i pezzi pregiati vi sono Le Muse di Giovanni Santi, ma il capolavoro della collezione è un altro: il cartone preparatorio del ritratto di Giulio II.
Nell’ultima fase del suo periodo fiorentino, Raffaello viene chiamato da Papa Giulio II della Rovere. Entra a Roma nel 1508 passando per le rovine dell’antica porta Flaminia, una spianata di terra che è l’estremo lembo del vecchio Campo Marzio. Il Colosseo è un gigantesco rudere circondato da boschi e animali selvatici.
A Roma frequenta assiduamente donne bellissime (solo una però avrà l’onore di restare in un ritratto: Margherita Luti, la Fornarina), senza mai trascurare il nucleo del potere, che lo ammira e lo richiede, certificando la sua statura di stella: grazie all’amicizia con Agostino Chigi è incaricato di affrescare la Loggia di Psiche in villa Chigi (l’attuale villa Farnesina) e crea scandalo con scene erotiche che non si vedevano da qualche secolo, più o meno dalla caduta dell’Impero.
Giulio II, oltre agli affreschi delle Stanze Vaticane che costituiranno un ulteriore, celebre capolavoro, gli commissiona il suo ritratto.
Giulio II, il Papa Guerriero, che ha scelto il suo nome per via di Giulio Cesare, che è il comandante effettivo dell’Esercito Pontificio, che ha abbattuto le libere signorie di Perugia, Bologna, Forlì e si è poi presentato nei territori riconquistati come un vero capo di Stato, che ha cercato di distruggere la Repubblica di Venezia, che ha istituito le Guardie Svizzere Vaticane, che ha fondato i Musei Vaticani, che ha combattuto i Francesi, ritratto qui come un vecchio pensieroso e intimista, pacificato, quasi benevolo.
Ce ne sono altre due copie (una realizzata dallo stesso Raffaello e presente agli Uffizi, una attribuita a Tiziano e conservata nella Galleria Palatina di Firenze), ma l’incredibile tappezzeria verde smeraldo, la veste, la barba, i dettagli delle ghiande (simbolo dei Della Rovere) obbligano a scegliere questa prima versione. Il ritratto viene esposto dal 1513, alla morte del Papa, in Santa Maria del Popolo, con “gran meraviglia” di tutte le genti. Vasari ricorda che “faceva temere il ritratto a vederlo come se proprio egli fosse il vivo”.
Ed è sempre Vasari a raccontarci la sua fine: “Il quale Raffaello, attendendo in tanto a’ suoi amori così di nascosto, continuò fuor di modo i piaceri amorosi, onde avvenne ch’una volta fra l’altre disordinò più del solito; perché tornato a casa con una grandissima febbre, fu creduto da’ medici che fosse riscaldato; onde, non confessando egli il disordine che aveva fatto, per poca prudenza, loro gli cavarono sangue; di maniera che indebilito si sentiva mancare, là dove egli aveva bisogno di ristoro. Perché fece testamento e prima come cristiano mandò l’amata sua fuor di casa e le lasciò modo di vivere onestamente; dopo divise le cose sue fra’ discepoli suoi…” Il gigante Raffaello capisce che sta morendo di sifilide. La morte del più grande pittore fa piangere tutti gli artisti. Dà il via al Manierismo: “Ora a noi che dopo lui siamo rimasi, resta imitare il buono, anzi ottimo modo, da lui lasciatoci…” scrisse infine Vasari. E scolpisce nella pietra la sua concezione di Buona Maniera, quella dei Grandi: Leonardo, Michelangelo, Raffaello, e chi seguirà le loro orme (come il Pittore Senza Errori Andrea Del Sarto, o Fra Bartolomeo; certo non gli sperimentalisti anticlassici Pontormo e Rosso Fiorentino, con i loro scarsi riferimenti architettonici, la prospettiva stravolta, le pose tormentate e artificiose, i grovigli assurdi, i sentimenti troppo concitati).
Dalla morte di Raffaello alla fine del Concilio, per circa vent’anni l’arte sarà colta, raffinata, piena di richiami simbolici e mitologici, profana, laica, al limite del paganesimo, esasperata nei movimenti serpentinati, nelle torsioni, priva di prospettiva centrale. Il Concilio di Trento si incaricherà di stroncarla, e di riportare le rappresentazioni a un compito di educazione dogmatica, fondamentalmente di catechesi. Naturalmente, per ogni divieto c’è una via di fuga; e l’arte della Controriforma manterrà ampie zone grigie, simboleggiate dagli “Studioli”; da un lato i soggetti pubblici, sacri, dottrinali e ben comprensibili, come aveva stabilito il Concilio; dall’altro, soggetti mitologici, colti, eruditi, spesso profani e sensuali, nascosti nelle stanze delle dimore private.
Disse Pablo Picasso: “L’uomo normale cita. Ma il grande artista ruba.”
Raffaello è stato la dimostrazione che il genio è molto di più dell’eccellenza in un singolo ambito: la completezza del genio come una moltiplicazione esponenziale di singole eccellenze, fino al massimo risultato della loro sintesi in una forma ancora superiore, e soltanto propria, irripetibile.
Il rigore spaziale di Piero della Francesca, l’eleganza di Botticelli, la lingua segreta delle remote creature di Leonardo, la sensualità di Tiziano, la plasticità di Michelangelo, il senso narrativo di un grande scrittore, l’idea, a un certo punto molto diffusa, che il “Divino” avesse accesso a immagini soprannaturali, e riuscisse a tradurle in pittura, unendo tutto ciò alla continua elaborazione di un ideale di bellezza classica che sembra trascendere i secoli; e talmente alta sembra la sua leggibilità, che ancora oggi – è quello che forse sosteneva Guttuso – riesce quasi totalmente a sfuggirci.